Lo scorso 2 marzo, gli elettori israeliani sono stati chiamati alle urne per la terza volta in meno di un anno, eppure l’immediato futuro dello scenario politico israeliano sembra essere ancora più incerto. Nonostante il Likud, il partito dell’attuale Primo ministro ad interim Benjamin Netanyahu, sia uscito in testa dalla tornata elettorale, ottenendo la maggioranza relativa dei voti (35 seggi), la coalizione di destra non è riuscita, per appena tre seggi, a raggiungere la quota minima di 61 seggi – su 120 totali – necessari per costituire un governo di maggioranza.
I risultati di queste elezioni hanno tuttavia ripristinato il ruolo guida del partito di Netanyahu che, nelle precedenti consultazioni elettorali, era stato sopraffatto dai consensi confluiti verso il partito Kahol Lavan (Blu e Bianco) di Benny Gantz, ex Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane (IDF) e principale avversario politico di “Bibi” nell’ultimo anno. Inoltre, il fatto che il Likud abbia ottenuto quattro seggi in più, pari a 237mila voti, ha anche rinvigorito la coalizione ultra-ortodossa di destra (Likud, Shas, Giudaismo Unito nella Torah e Yamina), sebbene nessuno di questi partiti abbia effettivamente guadagnato un numero maggiore di deputati.
A questo esito hanno contribuito vari fattori. Prima di tutto l’affluenza alle urne, che in questa tornata ha registrato un aumento di circa due punti percentuali (dal 69,8% al 71,3%), nonostante – o forse proprio grazie a – l’emergenza coronavirus, che ha tenuto bloccati nel luogo di residenza numerosi cittadini israeliani. La maggiore affluenza alle urne, oltretutto, potrebbe derivare dalla volontà di molti cittadini israeliani di contrastare la crescita del peso politico del partito arabo, la Lista Araba Unificata, che, già alle scorse elezioni, aveva ottenuto un risultato senza precedenti (13 seggi), superato solo da quello ottenuto durante questa tornata elettorale (15 seggi). Inoltre, i partiti più piccoli hanno registrato un calo di preferenze, fenomeno che ha giocato a favore di entrambe le coalizioni, che hanno ottenuto un numero maggiore di seggi. In particolare, sembra che circa un quarto dei voti confluiti verso il Likud provenga dagli elettori del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che non è riuscito nemmeno a superare la soglia di sbarramento. Per la prima volta nella storia politica israeliana solo otto partiti hanno superato la soglia di sbarramento.
Un altro fattore da tenere in considerazione è rappresentato dal mutato contesto regionale e dalle abilità diplomatiche sfoggiate da Netanyahu durante la campagna elettorale. Sfruttando gli spazi politici derivanti dalla guerra per procura in corso tra USA e Iran, il leader del Likud è riuscito ad ottenere importanti successi in politica estera, stringendo alleanze con paesi musulmani sunniti sia nel Golfo che nel continente africano e, soprattutto, a rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti grazie al piano di pace avanzato dall’amministrazione Trump – il cosiddetto “Deal of the Century”. Presentata dal Presidente Trump proprio a ridosso delle elezioni israeliane, la proposta, se accettata, estenderebbe la sovranità israeliana sulle colonie in Cisgiordania e riconoscerebbe Gerusalemme come capitale unica di Israele.
Ma, soprattutto, ciò che ha contribuito in maniera significativa ad aumentare la percentuale di affluenza alle urne sono la situazione di incertezza e urgenza che caratterizza la politica israeliana, risultato di tre tornate elettorali conclusesi con un nulla di fatto, e l’esistenza di profonde fratture ideologiche interne alla stessa società, divisa tra la componente laica e quella religiosa.
Nonostante ciò, i vari turni elettorali – che hanno ormai assunto il valore di referendum sulla premiership di Netanyahu – hanno in qualche modo rappresentato una sconfitta del Primo ministro: anche in quest’occasione, sebbene il Likud e la coalizione di destra abbiano ottenuto 2,2 milioni di preferenze, l’eterogenea formazione anti-Netanyahu (Lista Araba Unificata, Yisrael Beitneu e la coalizione di centro-sinistra) ne ha totalizzate 2,33 milioni. In particolare, la coalizione di centro-sinistra, guidata da Gantz e formata da Kahol Lavan e dall’unione tra Partito Laburista Israeliano, Gesher e Meretz, ha ottenuto 40 seggi. Questo risultato rende tuttavia altamente improbabile la prospettiva di un governo unicamente di centro-sinistra – senza appoggio di partiti esterni alla compagine di governo. Anche se a questo ipotetico governo partecipasse la Lista Araba Unificata, la formazione raggiungerebbe quota 55 seggi, 6 in meno rispetto ai 61 necessari per ottenere la maggioranza all’interno della Knesset.
Ancora una volta, il partito nazionalista laico Yisrael Beiteinu (Israele Casa Nostra), con 7 seggi, assume il ruolo di ago della bilancia nel futuro del governo. Stando alle dichiarazioni del suo leader, Avigdor Lieberman, il partito non avrebbe intenzione di appoggiare la coalizione di destra, per via della partecipazione della componente ultra-ortodossa e, fino a pochi mesi fa, appariva restio anche a entrare a far pare della coalizione di centro-sinistra, che per avere anche la minima possibilità di contendersi la guida del Paese, dovrebbe tutt’ora contare sull’appoggio, anche solo esterno, del partito arabo. Tuttavia, nel contesto attuale, come confermano fonti vicine al partito, il leader di Yisrael Beiteinu è disposto a cedere a tali condizioni pur di eliminare, una volta per tutte, Netanyahu dalla scena politica.
A oggi, quindi, l’ipotesi più accreditata sembra essere quella di un governo centro-sinistra, con l’appoggio esterno della Lista Araba e di Yisrael Beiteinu. Sarebbe un governo minoritario, assemblato con l’intento di superare l’impasse. Un governo di scopo dunque, che però si troverebbe a dover risolvere una serie di profonde divergenze ideologiche tra varie componenti politiche che, apparentemente, non hanno nulla in comune se non la volontà di scalzare “Bibi” Netanyahu, il Premier più longevo della storia israeliana.
Sulla possibilità che si realizzi questa conventio ad excludendum ai danni di Netanyahu, che riunirebbe sotto un unico programma forze di centro (Kahol Lavan), di sinistra (Labour-Gesher-Meretz) e di destra (Yisrael Beitneu), il leader della Lista Araba, Ayman Odeh, non ha ancora chiarito la sua posizione. D’altronde, per la sua componente, sarebbe controproducente allearsi con degli esponenti politici che hanno più volte manifestato il loro completo supporto al piano di pace dell’amministrazione Trump – un piano che ha destato forte risentimento da parte dell’opinione pubblica araba e palestinese.
A complicare ulteriormente lo scenario ci sono i processi giudiziari: Netanyahu è infatti incriminato per corruzione, frode e abuso d’ufficio e, dal 17 marzo, affronterà una serie di processi per difendersi da tali accuse. Dal momento che, secondo la legge israeliana, il Primo ministro accusato di aver commesso un crimine non è costretto alle dimissioni, Netanyahu potrebbe sfruttare la posizione di vantaggio acquisita nelle ultime elezioni per guadagnare supporto pubblico e, allo stesso tempo, sferrare un tiro mancino contro un sistema giudiziario che definisce ingiusto e una copertura mediatica sfavorevole. Dall’altro lato, Gantz e il suo partito stanno avanzando un disegno di legge che ha l’obiettivo di impedire a un esponente politico sotto processo di ricoprire il ruolo di Primo ministro, così da lasciare aperta l’ipotesi di un governo di unità nazionale (Likud e Kahol Lavan) guidato dallo stesso Gantz. Perché la proposta sia approvata da parte della Knesset – il parlamento israeliano – la coalizione di centro-destra necessiterebbe del voto favorevole della totalità dei membri del partito arabo (quindi, anche dei tre politici della componente Balad che, alle scorse elezioni, si erano rifiutati di appoggiare Gantz) e del partito nazionalista di Lieberman. Se accettata, tale legge non impedirebbe la premiership di Netanyahu fino a un’eventuale quarta elezione, ma solo la sua ricandidatura per la posizione di Primo ministro. Netanyahu ha commentato la proposta di Gantz affermando che “è contraria ai principi democratici” e additandola come legge retroattiva e ad personam. Eppure, era stato lo stesso “Bibi” a votare a favore di una legge simile nel 2008, quando l’allora Premier Ehud Olmert era stato incriminato per frode e abuso d’ufficio nell’affare Talansky.
Quindi, nonostante Netanyahu abbia rivendicato un’“eccezionale vittoria” del suo partito, i risultati delle ultime elezioni sono ben lontani dal consegnargli la premiership e l’ombra dei processi continua ad oscurare il suo futuro politico. Anche se il Likud ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi, “Bibi” ha perso il suo referendum personale, con uno scarto che pare però minore rispetto alle precedenti consultazioni, nonostante le incriminazioni. Ancora una volta, solo la lunga fase di consultazioni elettorali sarà forse in grado di districare la matassa politica israeliana. L’ipotesi di convocare gli elettori alle urne per la quarta volta in un anno non sembra ancora essere stata scongiurata.
Melania Malomo